Potrebbe sembrare una storia come un’altra, ma la casualità con cui si sono susseguite queste vicende l’ha trasformata in una di quelle avventure che ricorderò per molto tempo ricordandomi il motivo per cui amo internet e faccio quello che faccio.
Tutto inizia
qualche giorno fa grazie al commento che ho trovato sotto il video che ho realizzato per raccontare il BurningMan 2012.
Tetris è il playa name di Andy. Al Burning Man spesso ti viene attribuito un nome che ti identificherà all’interno della community. Un po’ come avviene sui social network, con la differenza che non puoi sceglierne uno. Qualcuno lo farà per te per evidenziare una tua abilità o caratteristica che, da quel momento in poi, sarà il tuo connotato distintivo.
Andy é un ragazzo inglese, vive a Londra ed è sposato con una ragazza polacca. La settimana dopo il suo matrimonio, avvenuto con rito liturgico in una chiesa nel paese di sua moglie, lui e la sua consorte hanno deciso di replicare il momento magico con un nuovo matrimonio in mezzo al deserto del Nevada, secondo il rituale del Burning Man.
Io non sapevo nemmeno che questa cosa fosse possibile. L’ho scoperto quel giorno.
Girovagando per Black Rock City, lo scorso Agosto mi sono imbattuto in un gruppo di persone disposte intorno a 3 personaggi vestiti di verde. In maniera del tutto casuale. Quando ho capito cosa stesse succedendo, ho parcheggiato la mia bicicletta ed ho tirato fuori la telecamera.
Di solito chiedo sempre il permesso quando mi trovo a riprendere delle persone. Quel giorno, vista la situazione, non l’ho fatto, ma ho passato i successivi sei mesi a sperare che i due sposini guardassero il mio video.
La settimana scorsa il buon YouTube ha proposto ad Andy la mia dusty tale from the desert e lui ha pensato di seguire il consiglio.
Il caso.
Le coincidenze condiscono questa storia con un velo di casualità che l’ha resa ancora più particolare.
Nel video faccio accenno al fatto che, per arrivare nel Nevada, sono partito da San Francisco. Questo ha lasciato pensare ad Andy che io vivessi qui e, visto che casualmente si trovava in città per lavoro, ha pensato di scrivermi una mail per propormi un incontro.
Ma quanto è assurdo che un inglese e un italiano, che si incrociano su internet, si ritrovino entrambi in California nello stesso momento? Con mia incredibile sorpresa leggo la mail e accetto la proposta. Decidiamo di incontrarci per assistere insieme ai festeggiamenti del Capodanno Cinese.
“Ho una giacca nera e sono all’incrocio tra Post e Stockton” mi scrive Andy in un sms. “Mi trovo esattamente sotto il cartello di Post street dalla parte di Union Square”.
Raggiungerlo è un po’ difficile. La folla è accalcata per vedere la sfilata e lui si trova proprio all’altezza delle transenne che segnano il percorso della parata. Lo vedo da lontano. Quando si gira per la prima volta ci riconosciamo. Col solo uso del labiale gli faccio capire che sto sperando che qualcuno mi lasci avvicinare. Qualche minuto dopo sono lì.
Ci abbracciamo e cominciamo a raccontare le nostre storie mentre la popolazione cinese di San Francisco fa bella mostra del suo orgoglio. Andy, circondato dai sorrisi delle persone intorno a noi che non possono fare a meno di ascoltare, mi racconta di nuovo il suo stupore nel ritrovarsi in un video che YouTube gli aveva casualmente segnalato.
La Chinese New Year’s Parade è l’evento cinese più grande del Nord America. Carri allegorici e bambini che ballano al ritmo di Gangam Style (ma non era Koreano?) dispensano allegria tra gli spettatori, nonostante, di tanto in tanto, vengano interrotti dalle trovate pubblicitarie di McDonald’s e banche varie che hanno approfittato dell’evento per aumentare i profitti.
Mentre gli parlo del motivo per cui mi trovo a San Francisco, Andy mi invita ad andare insieme a lui all’ All World’s Fair. Visto il contesto della conversazione credo si tratti di qualche conferenza di nerd che parlano di web. Nonostante non fossi proprio in vena di business, decido di accettare l’invito giusto per non salutarlo troppo presto.
“Hai fame?” Mi chiede. “Conosco un ristorantino giapponese vicino l’hotel in cui sono stato durante la mia ultima visita. Ti va?”.
Mai dire no al sushi.
Le dimensioni dei ristoranti a San Francisco non sono mai esagerate. Akiko’s Sushi Bar è ancora più piccolo della media.
Una trama floreale su kimono nero accoglie il nostro ingresso con un inchino. Sorridente ci invita a scrivere il nostro nome su una lista perchè c’è d’aspettare una ventina di minuti prima che il prossimo tavolo si liberi. Decido di aspettare fuori mentre Andy ne approfitta per andare in bagno.
Jess e Sarah sono due ragazze di Boston in visita nella città. Sono in fila prima di noi.
“Sei gia stato in questo ristorante?” mi chiede timidamente Jess. “Non ci sono mai stato, ma il mio amico si. Dice che si mangia bene ed è relativamente economico” Il mio accento lascia trasparire che non sono di qui e, anche questa volta, la conversazione si evolve con una loro investigazione sulle mie origini che si interrompe con l’arrivo della cameriera che le invita a sedersi.
“Ci hanno offerto un tavolo da 4” dice Jess rivolgendosi a me e Andy che nel frattempo era tornato “se vi fa piacere potete sedervi insieme a noi”
Una foto del mio piatto finisce subito sullo stream Instagram di Sarah che inaugura così il nostro incontro. Il piacere nel degustare i sapori dell’oriente e quello delle inaspettate storie che le due americane ci raccontano nel tentativo di disegnare la loro personalità, mi regalano un altro interessante momento che, per quella giornata, non era affatto previsto.
L’All World’s Fair non è una conferenza di nerd.
Lasciamo il ristorante e corriamo verso Mission Street. Scopro di essere in ritardo. Durante la corsa, mentre il sushi mi saltella nella pancia, Andy mi dice che per l’evento è previsto un dress code. Abiti esclusivamente bianchi o neri. Non ero affatto preparato per l’occasione ma, fortunatamente, il mio guardaroba non include tonalità molto vivaci. Credo di riuscire tranquillamente a rientrare nella seconda categoria.
“I biglietti costano un bel po’ ” mi dice, “ma una ragazza che ho conosciuto al Burning Man lavora alla porta. Potrebbe lasciarci passare senza.” Bene, penso mentre mi interrogo sul motivo di un tale abbigliamento per un evento di business.
Arrivati all’ Old Mint, il posto scelto per l’occasione, scopro con grande stupore che, fino a quel momento, non avevo capito nulla.
All World’s Fair, la fiera di tutti i mondi, è un evento molto particolare. Non saprei nemmeno descrivere esattamente di cosa si tratta. So solo che arrivarci senza sapere cosa aspettarsi, dopo una giornata come quella, è davvero un’esperienza mistica.
Potrei definirla come un’avventura teatrale interattiva. Molto particolare.
Lo spettacolo comincia dalla fila per entrare. Un paio di centinaia di persone vestite in bianco e nero con tuxedo e costumi vari affollano l’ingresso. Il personale indossa abiti ottocenteschi rossi. Accolgono la clientela invitando tutti a compilare dei moduli per le procedure d’imbarco.
Punti interrogativi nella mia mente.
L’amica di Andy, calatasi nella parte gia da qualche ora, dietro dei baffoni finti che le coprono le guance fino alle orecchie, si avvicina, ci abbraccia e ci stampa due timbri sui polsi. “Benvenuti!” Una sua collega si affretta a fornire anche a noi i moduli da compilare. “Compilate tutto molto accuratamente. Non lasciate nulla in bianco. Quando avete fatto presentatevi al controllo passaporti.”
Passaporti?
Mi affretto a compilare il modulo rispondendo a domande del tipo: Quali altri universi hai esplorato prima di oggi? Oppure Hai fatto sogni strani negli ultimi 30 giorni? Se si, descrivili verbalmente al controllo passaporti.
Prima di affrontare questo atteso controllo, mi chiedono di infilare il mio telefono in una busta da lettere che provvedono a sigillare con l’obiettivo di impedirmene l’utilizzo. Fanno lo stesso con la mia fotocamera. Mi dicono che solo fotocamere analogiche sono ammesse.
Peccato.
Il controllo passaporti è costituito da due file di banchi disposte una di fronte all’altra. I dieci ufficiali, dopo aver strappato tutti i moduli presentati e buttato i coriandoli sulle nostre teste, timbrano in sincronia i passaporti che i corrispettivi dieci passeggeri avevano appena ricevuto.
Arrivati finalmente alla porta d’ingresso, un usciere molto eccentrico ci invita a disporci lungo la parete. Prima di aprire la porta ci spiega che dovremo entrare molto velocemente perchè il contenuto di quel palazzo non può disperdersi per la città.
La porta si apre e tutti corriamo dentro ritrovandoci in uno scenario che potrebbe essere paragonato a quello di Alice nel Paese delle Meraviglie. Ogni stanza dell’Old Mint è decorata in modo da sembrare un nuovo universo da esplorare.
Ogni mondo è reso suggestivo dai personaggi che lo popolano. Non si può lasciare una stanza senza vivere le esperienze che vengono proposte al suo interno. Soltanto in questo modo si possono ottenere i timbri sul passaporto che ti danno accesso alla stanza successiva. Inoltre, ogni esperienza ti permette di guadagnare Norton Dollars con i quali potrai acquistare altre avventure.
In giro per i mondi mi ritrovo a cavalcare baffi a dondolo con perfetti estranei, lascio i miei capelli in un barattolino di vetro per permetterne lo studio del mio DNA da parte degli scienziati di un universo lontano, viaggio nel tempo seduto su una sedia per massaggi e bevo del tea aromatizzato allo zenzero e peperoncino per conversare nella sala dell’Ydromacy.
Il mio viaggio si conclude nell’universo dei burattini dove incontro Laughing Lucy, la bambola che ride e si muove quando la luce si accende, e la chiromante a gettoni che mi consegna il mio destino su un foglietto di carta al costo di un centesimo di dollaro.
Every flower blooms at its own time, leggo.
Le foto che vedete sono state scattate con l’altra fotocamera che mi sono ricordato di avere nello zaino. La qualità non è alta ma non ho saputo resistere.
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