Pensare che la mia giornata era cominciata con questo tweet.
Per la prima volta non ho avuto problemi di peso con il bagaglio. Sto migliorando.
— Ernesto Cinquenove (@cinquenove) February 2, 2013
Philadelphia. La città di Bruce Springsteen (non è di Philadelphia?) e di Kaori che, nonostante tutto, non riuscirò a vedere. Sono qui però. Disteso su uno dei due lettoni del Marriott Hotel all’interno del Terminal B dell’aeroporto internazionale. Doveva essere soltanto una tappa intermedia. Avrei dovuto transitare qui per un paio d’ore per poi imbarcarmi sul mio secondo volo. Quello che mi avrebbe portato a Los Angeles, la destinazione iniziale della mia nuova avventura oltreoceano.
Come ogni volta però, anche oggi mi hanno fatto sentire come un trafficante internazionale.
Gli americani sono un popolo estremamente cordiale. Sono tutti molto amichevoli e gentili. Ringraziano e chiedono perdono anche quando non serve. Persone che accolgono con rispetto le diversità. Disponibili al dialogo e a dare una mano quando c’è bisogno.
Non si può dire lo stesso delle loro forze dell’ordine. Forse sarà proprio in virtù dell’ordine che vogliono mantenere che mi trovo qui.
Non voglio sembrare lamentoso in questo post, non è da me. Imprevisti del genere mi hanno spesso portato a vivere avventure inaspettate e gradite.
Volevo cogliere l’occasione per raccontare cosa significa entrare negli Stati Uniti da “visitatore” o meglio “alien”, come dicono loro.
Per questa mia terza visita nel paese di Obama sono riuscito ad ottenere un visto che mi permette di soggiornare più a lungo dei tre mesi previsti per i turisti. Per chi non avesse mai affrontato una trafila del genere c’è da sapere che per ottenere un visto bisogna avere dei requisiti e dimostrarli durante un colloquio con un console, presso una delle sedi delle ambasciate all’interno del paese di residenza.
Il giorno del mio colloquio, dopo aver fatto dell’ironia sui miei jeans troppo aderenti per lo standard americano, il console di turno mi chiese informazioni riguardo la mia visita negli States. Il loro compito è quello di evitare, per quanto possibile, l’immigrazione garantendo l’accesso a chi intenzionato a beneficiare delle attrazioni turistiche nazionali. La loro preoccupazione maggiore è quella degli stranieri che si intrufolano nel territorio in cerca di lavoro e stabilità economica, sottraendola agli americani.
Il colloquio serve ad assicurarsi che i motivi delle visite siano diversi da quelli appena citati.
La fase empirica di questo processo mira alla verifica di due fattori principali. I legami con il paese d’origine e la disponibilità economica del richiedente.
Verificare l’esistenza di legami assicura agli Stati Uniti che l’alieno di turno è intenzionato a tornarsene a casa. Disporre di moglie e figli, contratti di lavoro e proprietà varie aiuta il gentil console a guardarvi di buon occhio.
La disponibilità economica, da dimostrare attraverso estratti conto bancari, è invece la prova che non avrete bisogno di lavorare durante il periodo che avete intenzione di trascorrere negli USA.
Nel mio caso, da quasi trentenne, single e squattrinato, convincere il console non è stato facilissimo. Ma ce l’ho fatta. Lo scorso novembre il mio visto è stato approvato.
Questo sudatissimo adesivo sul passaporto è stato chiamato in causa per la prima volta questa mattina all’aeroporto di Fiumicino. La signorina addetta alla sicurezza per conto della US Airways lo ha promosso a pieni voti permettendomi di salire a bordo.
Arrivato a Philadelphia, dopo 10 inspiegabili ore, in condizioni di comfort che hanno danneggiato ai miei occhi la reputazione della compagnia aerea, mi sono messo in fila per il controllo passaporti e visti alla dogana.
Per chi non ci fosse mai stato, la dogana americana è fatta cosi: corsie verdi per i cittadini US e corsie rosse per il resto del mondo. Alla fine delle linee rosse, una schiera di ufficiali del Department of Homeland Security che contrastano con i loro modi burberi i sorrisi i loro colleghi (attori) sfoggiano nei maxi schermi sopra le loro teste per dare il benvenuto ai visitatori.
Welcome to the United States è quello che si legge ovunque, ma gli ufficiali in questione non sembrano essere dello stesso parere.
Ogni mia visita precedente è iniziata con quella che loro definiscono “Secondary inspection”. Oggi, almeno, mi hanno spiegato il perchè.
“Salve, come va?” dice l’ufficiale.
“Stanchino. Dieci ore di volo. Me ne mancano altre sei.” Concludo cosi i convenevoli.
“Qual è il motivo della sua visita?”
“Vengo per un progetto sul quale sto lavorando, sono qui per imparare e per cercare potenziali partner, parteciperò ad eventi e conoscerò persone.”
“Di che progetto si tratta e perchè questi partner li cerca negli USA?”
Io, che dentro di me pensavo “Ma queste cose non ve le avevo gia spiegate al colloquio all’ambasciata? Se mi hanno approvato il visto vorrà dire che sono informazioni verificate.” Non potendo obiettare rispiego tutto da capo.
Lui: “Che motivazioni ha fornito al momento della richiesta del visto?”
Io: “Le stesse che sto fornendo a lei. Anzi, le ho addirittura portato una lista di eventi ai quali ho intenzione di partecipare, se vuole dare un’occhiata”.
Dopo aver letto la prima pagina della mia lista, avermi scannerizzato impronte digitali e iride e controllato i miei record sul computer, conclude dicendo “Allora, per me andrebbe bene cosi. E’ tutto a posto. Solo che, visto che le volte precedenti l’hanno trattenuta per saperne di più, dovremo farlo di nuovo. Vede, se fosse qui per una settimana, non ci sarebbero problemi, ma visto che vuole rimare a lungo dobbiamo sapere perchè.”
Ma allora il visto a cosa serve? Penso io.
Mette i miei documenti in una cartellina, me la passa e mi dice: “Da quella parte. Dove c’è scritto “secondary inspection”. Consegni questa cartella al primo ufficiale che vede.”
Stessa storia delle mie visite precedenti. Questa volta però la stanza del nuovo interrogatorio è piena di gente in fila. L’ufficiale mi invita a sedermi ed aspettare di essere chiamato. Un’ora più tardi, dopo aver risposto per la terza volta alle stesse identiche domande, il mio ingresso negli USA era stato approvato ma, ormai, il mio volo per LA era gia partito.
“Non si preoccupi” mi dice. “Vada al desk della sua compagnia aerea e dica di esser stato trattenuto qui. La metteranno sul prossimo volo gratuitamente.”
Al desk della US Airways scopro che è tutto vero ma, purtroppo, il prossimo volo è quello delle 7.30 del mattino seguente. Quando ormai ero rassegnato a dover dormire in aeroporto per l’ennesima volta, la gentile ragazza dietro il bancone, avendo notato che il mio volo precedente era atterrato a Philadelphia con più di mezzora di ritardo, risolleva la mia stima nei confronti della compagnia per la quale presta servizio offrendomi una notte in hotel e un voucher per il ristorante.
Nice to meet you Philadelphia!
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